

di Emanuela Furlan
Categoria: Romanzo
Formato: 15x21, 308 pag. brossurato.
Illustrazioni di Mika Fusato
Categoria: Romanzo
Formato: 15x21, 308 pag. brossurato.
Illustrazioni di Mika Fusato
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Una mano sconosciuta, un libro abbandonato, una lettera nascosta, un invito misterioso.
Per Amelia non può essere che uno dei suoi romanzi, quelli in cui ha sigillato i sentimenti autentici che si rifiuta di affrontare nella vita reale.
E se invece questa volta stesse accadendo proprio a lei?
E se fosse arrivato il momento di riscrivere la propria storia?
Accetterà quell'invito per scoprire come sarebbe andata?
LEGGI L'ANTEPRIMA:
ESTRATTO DAL LIBRO (senza illustrazioni):
È il primo gennaio di un nuovo anno e sono piuttosto sicura di giacere nel limbo della mia esistenza. In questo periodo si parla spesso di buoni propositi, di grandi cambiamenti che ci si prospetta di fare. Se ne parla, appunto, perché, nonostante anch’io mi sia unita al coro di auspici per l’avvenire, non credo di essermi mai sforzata veramente per elaborare un piano d’azione. Facendo un rapido bilancio, ci sono diverse cose nella mia vita che vanno alla grande e che rappresentano per me una fonte inesauribile di compiacimento; molte altre, invece, sono da riesaminare, come ad esempio il mio ragazzo. Non fraintendetemi, è carino, dolce, educato, ma niente a che vedere col fuoco impetuoso di cui parlo nei miei romanzi. Cresciuta a pane, favole e giornalini della pubertà, ho dedicato anni alla ricerca di una relazione idilliaca che si confacesse ai canoni tanto ben descritti, ottenendo sempre il medesimo esito, ossia una rovinosa caduta di faccia. Perché nessuno dice mai la verità? La perfezione non esiste ed è meglio farsene in fretta una ragione, al fine di evitare terribili scottature. Vi prego, non giudicatemi eccessivamente cinica: lui è anche fin troppo entusiasta, ma io… io, al contrario, sono davvero una terribile fidanzata e il mio unico pregio è quello di non dirgli in faccia con esattezza ciò che penso. Ritengo che il problema di fondo sia la fantasia. La mia, per esempio, volteggia sfrenata alla velocità della luce e mi trasporta sulle sue ali a sognare mondi in
cui le persone intingono il romanticismo nel caffellatte la mattina. Sarebbe tutto più semplice da accettare se solo non fossi così stordita dall’immaginazione. Con ogni probabilità, il mio ragazzo sarebbe un eccellente compagno e il modesto appartamento con vista sulla strada che condividiamo potrebbe definirsi più che dignitoso; invece, eccomi qui a sognare di vivere in un attico inondato di luce naturale, dove poter girare indossando un leggero pigiama di seta, senza preoccuparmi di che ora sia e felice di intrattenermi fra le braccia del mio principe azzurro un po’ più a lungo del solito, perché i suoi avambracci sono talmente sexy da impedirmi di staccarmi da lui.
cui le persone intingono il romanticismo nel caffellatte la mattina. Sarebbe tutto più semplice da accettare se solo non fossi così stordita dall’immaginazione. Con ogni probabilità, il mio ragazzo sarebbe un eccellente compagno e il modesto appartamento con vista sulla strada che condividiamo potrebbe definirsi più che dignitoso; invece, eccomi qui a sognare di vivere in un attico inondato di luce naturale, dove poter girare indossando un leggero pigiama di seta, senza preoccuparmi di che ora sia e felice di intrattenermi fra le braccia del mio principe azzurro un po’ più a lungo del solito, perché i suoi avambracci sono talmente sexy da impedirmi di staccarmi da lui.
«Terra chiama Amelia!»
Uno scossone frantuma le mie recenti riflessioni.
«Mi stai ascoltando?» Tommy assume un’espressione scocciata, reggendo il suo telefono in maniera teatrale.
«Scusa, mi sono persa le ultime dieci parole», sbuffo, roteando gli occhi, irritata dall’interruzione.
«Quando mi hai assunto, non hai specificato che avrei avuto a che fare con una persona del tutto persa nel suo mondo. Dovresti darmi un aumento per l’infinità di volte in cui sono costretto a ripetere le cose», brontola offeso.
«Smettila di fare la prima donna, ti pago già abbastanza profumatamente per leggermi l’agenda», gli ricordo con aria di superiorità, posando le labbra sulla tazza di caffè che mi porto appresso come uno scettro.
A sorpresa, l’auto su cui viaggiamo sbanda a destra e poi a sinistra, e mi obbliga a sbilanciarmi come l’ago di un metronomo, tenendo sollevato il bicchiere per preservarne il contenuto. Tommy, con lo sguardo terrorizzato a causa della possibile catastrofe, si spalma sulla portiera, al fine di evitare l’entrata in collisione con la mia figura. Dalla sua bocca, esce una specie di ultrasuono che riesco ad associare al belato di un agnellino; già me l’immagino con la testa ricoperta di morbida lana bianca e le orecchie pendenti a incorniciare il suo musetto tutto rosa e vellutato. Ve l’ho detto, la capacità di fantasticare corre più veloce di qualsiasi altro componente del mio corpo. Non appena recupero l’equilibrio, mi affretto a riversare un’invettiva sul conducente.
«Ehi, faccia attenzione!» ringhio sul piede di guerra. Poi, rivolta a Tommy, bisbiglio: «Dove l’hai trovato questo? Al mercatino delle pulci? All’ospizio dei conducenti?»
Il mio assistente mi implora di tacere, premendosi l'indice sulle labbra. Mi fa così tenerezza, per la storia dell’agnellino, che per una volta lo accontento.
La cintura di sicurezza mi comprime il petto come le protezioni delle montagne russe; la allento cercando di rilassarmi e tuffo lo sguardo fuori dal finestrino. I lampioni scorrono così rapidamente da darmi l’impressione di essere legati l’uno all’altro da sottili fili di luce. A parte questo dettaglio, è buio pesto e non riesco a focalizzare nulla oltre il confine grigio della barriera stradale. Eppure non ho bisogno di vedere, perché riuscirei a costruire ogni singolo particolare del paesaggio là fuori, solo richiamandolo alla memoria. Mi gratto nervosa il collo, quasi certa di essere sul punto di esplodere in un’orripilante eruzione cutanea che nemmeno il miglior fondotinta in commercio potrà celare.
«Mi vuoi spiegare perché sei così nervosa?» chiede Tommy, osservando la scena preoccupato.
«Io? Nervosa?» scoppio in una risata isterica sulle note dei millemila decibel. Accortami della stupidaggine, schiarisco la gola e recupero un tono di voce più o meno passabile: «Detesto tornare qui», confesso, storcendo il naso.
«Ma è la tua città natale», obietta Tommy.
«Città!» esclamo, ridendo sprezzante. «Buco nero, vorrai dire», affermo, deglutendo un sorso di caffè.
«Quanto terribile potrà mai essere?» mi incoraggia, ignaro.
«Tanto, te lo assicuro», sentenzio guardinga.
«Io lo trovo eccitante, invece: tornare nel tuo paesello, con un’affermata carriera alle spalle, tre romanzi pluripremiati e un quarto appena uscito», replica con lo sguardo sognante e i pugni stretti accanto al viso.
Lo fisso con sufficienza, poi scrollo la testa e, a malincuore, decido di trascinarlo giù dalla nuvola su cui si è adagiato: «Tu non hai la benché minima idea di come stiano le cose. Qui la gente mi conosce veramente, capisci?» sono tentata di prenderlo per il bavero, allo scopo di esprimere meglio il concetto, tuttavia mi rendo conto che risulterebbe alquanto minaccioso; inoltre, non saprei dove posare il mio caffè.
«Non vedo dove sia il problema», risponde, agitando le palpebre con innocenza.
«Mio povero amico, mio piccolo ingenuotto», gli batto dei colpetti sul capo.
«Ehi», protesta, «ho impiegato mezz'ora per ottenere questo!» punta gli indici contro i capelli.
Mi esimo dal riferirgli che il risultato non è che sia poi così stravolgente, poiché temo che potrebbe offendersi davvero.
«Ascoltami bene: ogni volta che torno in questo posto, accade sempre qualche sciagura. Sono scappata dalla mia citt… ehm, da questo paesino sperduto, perché qui non mi è mai successo nulla di bello.
E da quando sono lontana, la mia vita è cambiata: sono una scrittrice famosa, una donna indipendente con un’esistenza invidiabile», sorrido compiaciuta, finché Tommy rompe l’incantesimo schiarendosi la voce. «Che c’è?» chiedo infastidita.
«Qualche cuore spezzato?» indaga, pungolandomi con una gomitata.
«No!» rispondo indignata. «Smettila di divagare, dobbiamo concentrarci su di me e sull’ennesima buona impressione che farò non appena scenderò da questa dannata auto.»
Tommy mi squadra dubbioso e riflette qualche istante con la fronte corrucciata: «C’è una cosa che mi sfugge…»
«Solo una?» sollevo un sopracciglio, consapevole di urtare il suo orgoglio. «Dai, dimmi», lo esorto poi.
«Tu odi tornare qui, ma mi ci hai fatto organizzare ben due eventi promozionali», espone il suo cruccio con fare investigativo. «Non potevamo semplicemente evitare?»
Sospiro sconsolata: «Non credi che se avessi potuto evitare ancora, l’avrei fatto? Ho cercato di schivare ogni invito, finora. Ho inventato impegni fittizi, lunghe sessioni di scrittura trincerata in un eremo, mal d’auto incurabile; tuttavia, quando mi ha telefonato il sindaco in persona, non ho potuto sottrarmi, poiché ha tirato in ballo l’anziana Signora Trudi della libreria in centro e ha fatto appello a una cosa che suonava grossomodo come al senso di appartenenza», racconto, arricciando le labbra.
Ma quale senso di appartenenza? Ho impiegato troppo tempo a prendere le distanze da questo posto, ormai. Perdo lo sguardo nel vuoto del sedile di fronte a me e inspiegabilmente mi metto a contare i pelucchi che spuntano dal tessuto spugnoso. Qualsiasi cosa pur di non pensare ai giorni che mi attendono.
«Trudi è davvero il suo nome?» ridacchia Tommy, portandosi l’indice alla bocca.
«Come? No, non è il suo vero nome, ma tutti la chiamano così, perché ha l’aspetto e le dimensioni di uno di quei morbidi peluche», rispondo distratta, mimando con la mano la sofficità dei suddetti pupazzi.
«D’accordo, quindi, domani pomeriggio saremo dalla pucciosa Signora Trudi, dove presenterai il libro e poi ti fermerai ad autografare le copie; il giorno seguente, invece, ci sarà la consegna ufficiale del romanzo al sindaco, con tanto di foto e pompa magna», elenca, facendo scorrere il dito sullo schermo.
Prendo un respiro profondo e mi convinco che sarà rapido e indolore. Tommy tace per qualche minuto e io ne approfitto per tentare di distendere i nervi prima che la situazione degeneri. Ci sono quasi riuscita, quando il veicolo centra una buca nell’asfalto e sobbalza in maniera brusca, facendomi quasi perdere la presa sul bicchiere di caffè. Tocca a me, ora, lanciare un imbarazzante urletto indecifrabile, mentre le palpitazioni riprendono a ritmo sostenuto, vanificando ogni risultato ottenuto poco fa. Chiudo gli occhi per lo sforzo di metabolizzare, sapendo che dalla mia bocca potrebbero uscire parole molto dure da digerire.
Tommy mi posa una mano sulla gamba: «Resisti, siamo quasi arrivati».
Annuisco, non potendo fare a meno di scovare brutti presagi nascosti in ogni piccolo anfratto.
«È proprio indispensabile quel caffè?» mi domanda poi, con un
velato tono saccente.
velato tono saccente.
«Assolutamente!» affermo decisa.
«Insomma, voglio dire, ormai sarà freddo e imbevibile. Lo tieni in mano da più di mezz’ora», osserva scettico.
«Devo proprio spiegarti tutto?» sbotto. «È un simbolo», dichiaro convinta, «determina il mio status di persona esotica e libera. Chiunque mi vedrà passeggiare con questo raffinatissimo bicchiere di carta 100% riciclabile in mano non potrà evitare di rimanere affascinato dal tipo di vita che conduco. Non incontrerai nessuno, qui, con un caffè da asporto. Rappresenta un modo per elevarmi e distinguermi, per guadagnare l’ammirazione della gente, per ispirare i giovani e dire loro di sognare in grande, di non fermarsi entro i confini della città.»
«Hai guardato troppi film americani», commenta allibito.
«Non mi credi? Allora ti invito a osservare gli sguardi della gente non appena entrerò in hotel reggendo il caffè: sarà un ingresso a effetto!» dichiaro solenne.
Ma proprio mentre pronuncio l’ultima parola, l’auto inchioda brutalmente e coglie i miei riflessi, già lenti, impreparati a qualsiasi reazione istantanea. La sensazione di bagnato che percepisco sul petto non promette nulla di buono.
«Siamo arrivati», annuncia l’autista, con una voce flemmatica che contrasta di netto col suo modo di guidare.
Apro gli occhi sconcertata e guardo verso il basso: la mia bellissima camicetta color panna ha assunto una tonalità marroncina, il bicchiere di carta 100% riciclabile giace riverso sulle ginocchia e le mie mani sono sollevate in un gesto di sbigottimento. Tommy se ne sta scioccato al mio fianco e credo che inizi a farsi un’idea del perché non volessi tornare in questo posto. Riluttante, scendo dall’auto e tento di avvolgermi con una sciarpa per mascherare l’orribile disastro che sono.
Improvvisamente mi sento sperduta e fragile, piccola e perdente in maniera irreparabile. Il conducente apre il bagagliaio e si degna di scaricare le due valigie contenenti i nostri averi. Tommy lo ringrazia, mentre io lo snobbo, troppo arrabbiata per provare a esprimere un briciolo di gentilezza. In pochi istanti, ci troviamo soli su un marciapiede di provincia, a osservare dal basso verso l’alto la locanda che ci ospiterà durante la nostra permanenza. L’insegna luminosa ha un paio di lampadine bruciate e diventa impossibile pronunciare il nome dell’albergo senza farlo sembrare uno stitico codice fiscale. Gli esterni sono tinteggiati di un verde salvia che preannuncia serenità e sulla facciata si possono contare solamente una coppia di imposte aperte.
«Entrata a effetto, dicevi?» Tommy non riesce a trattenere la battuta che, con ogni probabilità, covava da qualche minuto e mi porge la tazza vuota recuperata dai sedili del taxi.
«Taci!» ringhio, schivando la sua mano tesa e stringendomi le braccia al petto nel tentativo di coprire la camicia macchiata di caffè.
In seguito prendo coraggio e inizio a muovere qualche passo in direzione della porta girevole. Il mio assistente segue la scia rovente che lascio, trasportando le valigie e rischiando di incastrarsi nel pretenzioso ingresso rotante. Prego che non si unisca a me nelle figuracce, ho estremo bisogno di un'ancora di salvataggio.
I miei tacchi risuonano sul pavimento di marmo rosa mentre percorro l’atrio. In un angolo vedo delle poltroncine e qualche rivista; sul muro antistante, una bacheca che enumera le attrazioni della cittadina e qualche pianta verdeggiante sparsa qua e là. Mi avvicino al bancone, sporgendomi alla ricerca di qualcuno. Tommy si affianca, posa i bagagli ed estrae il telefono per recuperare il numero della prenotazione. Non vedendo l’ombra di un impiegato all'orizzonte, faccio trillare il campanello d’ottone che trovo di fronte a me.
«Che fai?» chiede Tommy, stupito.
«Suono il campanello», affermo con semplicità.
«È da snob suonare il campanello!» ribatte contrariato.
«Non è da snob! Se lo fosse, non lo metterebbero», puntualizzo.
«Mi dissocio», alza entrambi palmi.
«Quanto sei etico, a volte», commento, mentre apro con discrezione il cappotto per staccare la camicetta dalla pelle. Sto iniziando a provare un fastidio insopportabile.
«Buonasera», una voce melensa ci raggiunge proprio nel momento in cui sto pinzando il tessuto con le dita per tirarlo verso l’esterno.
«Buonasera», risponde Tommy, sfoderando le sue disarmanti buone maniere.
Mi affretto a coprirmi di nuovo, ruotando la testa con l’intento di rivolgere il mio saluto alla persona che ci ha accolto.
«Amelia?» la sua voce mi precede.
La guardo con attenzione ed esclamo: «Simona!»
«Sì, sono io!» risponde, allargando le braccia.
«Oh, caspita, Simona», balbetto, d’un tratto a corto di parole. «Ciao», la saluto poi.
«Vi conoscete?» Tommy appoggia i gomiti sul bancone e ci osserva curioso.
«Certo! Amelia frequentava la mia stessa scuola», spiega, scostando la lunga chioma bionda dietro le spalle con quei modi che ricordo fin troppo bene.
Quindi, io frequentavo la sua scuola? Da quando in qua era la sua scuola? C’era forse il suo nome sulla targa all’ingresso? La rabbia inizia a sobbollire come un liquido denso, tuttavia mi impongo di attingere a qualsiasi altro tipo di insipido convenevole pur di non esplodere.
«Esatto! Sai, Simona era una delle ragazze più ambite dell’istituto», e questa come mi è uscita?
«Adulatrice! Sta esagerando», si rivolge a Tommy con un risolino.
Devo assolutamente recuperare terreno, non sono più la sprovveduta di un tempo, eppure mi sto comportando proprio come tale.
«Non sapevo che lavorassi qui», commento, complimentandomi
in segreto per aver portato la conversazione sul piano professionale. Il compiacimento per la mia perspicacia, però, dura un battito di ciglia, perché Simona si mette a ridere, senza dubbio divertita dalle mie parole. Guardo Tommy, che ricambia spaesato.
in segreto per aver portato la conversazione sul piano professionale. Il compiacimento per la mia perspicacia, però, dura un battito di ciglia, perché Simona si mette a ridere, senza dubbio divertita dalle mie parole. Guardo Tommy, che ricambia spaesato.
«Sei sempre stata così simpatica!» afferma, asciugandosi le lacrime.
Tendo le labbra in un sorriso preoccupato.
«Questo posticino è di mia proprietà», dichiara, arruffando le piume, «o meglio, è di mio marito ma, a causa dei suoi numerosi impegni, ha affidato a me la gestione.»
Dovevo immaginarlo. Quale addetta alla ricezione non porta il proprio nome appuntato sulla giacca?
«E tu, invece?» devia il discorso. «Lui è tuo marito?» indica Tommy, che per poco si strozza con la sua stessa saliva.
«No! No», mi affretto a dire, «noi non siamo… lui è il mio assistente!» ci metto qualche istante a trovare le parole.
«Capisco…» mi schernisce in maniera deliberata, lasciando spazio a una miriade di allusioni.
Maledetta vipera. Tommy mi afferra il polso sotto il bancone e mi trascina nella sua aura pacifica. Rinnovo il sorriso, mostrando i denti che, nella mia mente, brillano come delle zanne affilate.
«Il mio fidanzato è rimasto a casa», replico con più calma. «È un giornalista», sputo poi.
«Oh, che affascinante!» risponde, mantenendo un tono falsamente cordiale.
«Noi abbiamo una prenotazione», si intromette Tommy, allungando il suo dispositivo verso Simona.
«Ma certo, mi servono i vostri documenti.»
Il mio accompagnatore glieli porge con prontezza, sospetto che abbia annusato la tensione nell’aria e che intenda accelerare i tempi.
«Fantastico, le vostre chiavi sono queste. Secondo piano, sulla destra», annuncia, facendosi di colpo formale.
Ringraziamo entrambi e ci voltiamo per raggiungere l’ascensore, ansiosi di conquistare un luogo sicuro.
«Amelia», Simona attira la mia attenzione, «abbiamo un ottimo servizio di lavanderia», mi informa.
La guardo incuriosita e non capisco quale sia il suo gioco, finché non indica la mia camicetta con un’occhiata di eccessivo godimento. Sono sul punto di aprir bocca per dar voce alla crescente frustrazione, quando Tommy mi pesta il piede di proposito. Trattengo una colorita invettiva e mi ridimensiono all’istante.
«Ti ringrazio», sviolino, sbattendo con delicatezza le palpebre.
Poi mi giro con foga e proseguo a passo spedito, inserendomi nell’ascensore non appena le porte ne permettono il passaggio.
Finalmente soli, Tommy mi osserva e trova il coraggio di parlare: «Chi era quella?» chiede.
«La ragazza più bella della scuola, quella che aveva tutto», borbotto acida.
«Accidenti, fuoco e fiamme fra voi», commenta, scuotendo la testa.
«Ha iniziato lei!» protesto in maniera infantile.
«D’accordo, non arrabbiarti con me», mi invita. «Ti accompagno in camera.»
Lo seguo docilmente e attendo mentre fa scattare la serratura.
La stanza è accogliente ma un po’ troppo barocca per i miei gusti. Ogni fronzolo ricorda la titolare di questo posto e quasi quasi mi rassegno all’inevitabilità delle sensazioni che si sono impossessate di me dal momento esatto in cui sono salita su quell’auto un’ora fa. Mi siedo sul letto, rimbalzando più volte. Il materasso sembra comodo e perfino questa constatazione è causa di fastidio.
«Hai visto?» mi lagno in cerca di conforto.
«Visto, cosa?» domanda Tommy, mentre solleva la valigia e la depone sul trespolo.
«Non c’è niente che sia andato per il verso giusto da quando siamo arrivati qui. Ora mi credi?» domando, sicura che concorderà con me.
«Suvvia, non dire così. Stai romanzando un po’ troppo le cose, a mio parere», mi contraddice.
Lo fulmino. Come può non capire? Mi sembra tutto talmente evidente: ho un’enorme calamita per le situazioni ridicole che si incolla al mio sedere ogni volta che transito per questo piccolo paese.
«Avanti, Tommy, è così chiaro: l’autista che ha trovato la patente in un sacchetto di patatine scadenti, il caffè che mi inonda neanche fossimo sul Titanic. Quando mi hai visto spandere qualcosa? Mai! Guarda qui: la mia camicia è praticamente da buttare. E poi Simona. Simona con i suoi capelli così lucenti e morbidi che mi fa sentire fuori posto come se avessi tredici anni. Li hai visti i suoi capelli?» chiedo con occhi che implorano comprensione.
«A dire il vero non li ho nemmeno notati», dichiara tranquillo. «Mi è sembrata gentile, forse un pochino eccentrica, ma cortese.»
«Gentile? Non hai colto nemmeno una delle frecciatine che mi ha rivolto? Ah, voi maschi siete sempre così poco ricettivi», commento contrariata. «Poteva chiedere dei miei romanzi e invece che fa? Mi domanda se sei mio marito», stringo i pugni in un gesto di stizza.
«Ascoltami, devo ricordarti chi sei?» si inginocchia vicino a me e mi prende le mani.
«Sì, ti prego», lo supplico con aria abbattuta.
Tommy sospira: «Sei Amelia, una grande scrittrice, donna indipendente e di successo».
«Va già meglio, grazie», sorrido.
«Sono contento», socchiude gli occhi, «perché ora devi cambiarti e darti una sistemata. I tuoi ci aspettano per cena.»
Apro la bocca in un’espressione allibita: «E me lo dici così?» strillo.
«Senti, tua mamma fa la crostata ai lamponi più buona che io abbia mai mangiato, perdonami se sono stato debole e ho accettato il loro invito», congiunge i palmi di fronte al naso.
«Tommy, ti stai prendendo un po’ troppe libertà», incrocio le braccia, risentita.
Mancava una cena dai miei per completare il mio ingresso trionfale in città.
«Credevi forse di evitarli?» mi scruta, giudicandomi.
«Ci avevo fatto un pensierino, in effetti», mugugno.
«Amelia, vergognati!» mi ammonisce serio.
«D’accordo, va bene, mi preparo e andiamo. Certo che se mi avessi avvisato prima…» contesto.
«Certo che se avessi prestato attenzione in auto, forse lo avresti saputo in anticipo», ribatte con aria di superiorità.
«Accidenti, sai colpire dritto nel segno, tu», fingo di estrarmi un dardo dal fianco.
Scherziamo qualche istante e poi Tommy si rifugia nella sua stanza, lasciandomi sola col mio carico di preoccupazioni inconsistenti.
Mi alzo e calcio via le scarpe, accendo il televisore e cerco un canale musicale che mi sollevi un po’ lo spirito. Scosto la pesante tenda oscurante di color verde marino e lascio vagare lo sguardo sul palazzo di fronte, seguendo la linea delle grondaie che piombano perpendicolari sulla strada, come solidi tronchi. Le luminarie sono accese e risplendono avvolte da una nebbiolina tipica di questa zona. Sembrano quasi fantasmi ovattati ed evanescenti. Le strade sono semideserte, d’altra parte è il primo gennaio e la gente starà ancora cercando di recuperare le energie dopo una notte di festeggiamenti. Nemmeno quelli mi sono stati concessi. L’idea di tornare in questo posto mi ha agitato a tal punto che alle dieci di sera sono crollata sul divano, mentre Max, il mio ragazzo, ne approfittava per lavorare a un pezzo in uscita questa settimana. Storco il naso al pensiero che Simona avrà sicuramente trascorso una serata più esaltante della mia.
Mi allontano dalla finestra e affronto la porta del bagno, tastando il muro alla ricerca dell’interruttore. Lo trovo e faccio pressione per illuminare la stanza. È piuttosto spaziosa e pulita. Unico neo: la doccia con la tenda. Rabbrividisco all’idea di un incontro ravvicinato fra la mia pelle e quel ripugnante pezzo di plastica, tuttavia puzzo così tanto da caffè che non ho alternative. Mi spoglio e, con la coda dell’occhio, noto una busta monouso che riporta la scritta “Lavanderia”. Il mio primo e solo pensiero è che non le darò questa soddisfazione. Col piede, aziono la leva del cestino e vi getto la mia camicia. Beccati questo, Simona; posso comprarmene altre cento.
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